Agosto 2018, Hvannasund, isole Faroe
Dopo quattro giorni di sole pieno, ombrellone, infradito e Margarita le Faroe mi ricordano che siamo nel bel mezzo dell’oceano Atlantico con pioggia scrosciante, cielo di quel meraviglioso bianco lattiginoso, raffiche di vento gelido; il tutto sapientemente e malignamente così ben amalgamato da non essere ne proibitivo ne consigliabile per salire su di un trabiccolo miracolosamente galleggiante che i faroesi si ostinano a voler chiamare barca.
Ed io quand’è che decido di visitare l’isola più ad oriente di tutto l’arcipelago? Sì, esattamente quel giorno.
Mi imbarco rassicurato dalle parole del capitano sulla non così particolare condizione meteorologica e dal fatto che le acque lì sono di una calma e di una serenità da tempio Zen.
Quando capirò che il metro di valutazione climatico dei faroesi è totalmente slegato dal mio sarà sempre troppo tardi. Nemmeno dieci minuti di navigazione e capisco perché lì era tutto così tranquillo: eravamo all’interno del fiordo. Usciti da lì la musica è cambiata e quella dannata bagnarola ha iniziato ad ondeggiare come una paperella di gomma nelle acque nel passaggio di Drake.
Inizio a non stare molto bene.
Inizio a prendere qualche sfumatura di verde.
Mi faccio forza dicendomi che in fondo durerà solo 40 minuti.
Vano tentativo.
Corro, anzi barcollo fino al lato della barca ed afferro il parapetto cercando con lo sguardo un punto da fissare per evitare di restituire al mare pranzi, cene, colazioni e spuntini di un’intera settimana. In qualche modo, non so come, ci riesco e la situazione migliora leggermente, ma distogliere lo sguardo da quel punto sarebbe catastrofico.
Fissa il punto e non pensare, finirà presto.
Fissa il punto e non pensare, finirà presto.
Fissa il punto e non pensare, finirà pres … … … non ce la faccio; qualcosa attira il mio occhio e mi costringe a distogliere lo sguardo: il capitano.
È lì accanto a me e si appoggia con fare annoiato sul bordo della barca mordendo lentamente, con indolenza, una mela di un verde brillante; l’unica cosa colorata in quel mare di grigio totale. Immerso nei suoi pensieri fissa per un po’ le acque turbinose sotto di noi senza dire nulla, finché non trovo il momento giusto per dirgli due parole:”allora capitano, sbarcheremo, vero?”, non mi rivolge neppure lo sguardo, ma le mie parole lo destano e indicandomi un anonimo punto davanti a noi afferma:”sbarcare mmmhsì, tornare a prendervi forse. Vedi quello rocce lì? Tutto dipende dalla corrente, ora scorre in una direzione che ci consente di attraccare, ma se tra qualche ora dovesse cambiare…”. Lascia cadere la frase, da un morso alla mela e torna a fissare le acque, con una naturalezza disarmante, ma drammaticamente tipica di chi è in perenne lotta contro le forze della Natura.
E in una lotta a volte si perde.
Torno a fissare quel punto immaginario davanti a me mentre quella maledetta zattera su cui sono inizia ad avvicinarsi all’approdo di Fugloy.
Fa freddo e le onde che si abbattono sull’imbarcazione alzano nuvole di salsedine. Sento il sapore dell’Oceano.
Decido di non scendere a terra, ma in compenso mi godo lo sbarco di quei poveri individui che hanno deciso il contrario ed è esilarante assistere al loro “lancio” da parte dei membri dell’equipaggio; chissà se li rivedrò, chissà se torneranno a casa stasera, peccato che io non sappia il faroese, magari hanno parlato di loro nelle cronache locali. Magari qualcuno di loro è ancora lì.
Ripartiamo e io mi precipito di nuovo nella mia “zona rifugio” a cercare, nella testa, un nuovo punto da fissare. Mi aspettano altri 40 minuti di dondolamenti, ma già dopo pochi di essi inizio a ricordarmi delle parole narratemi da un faroese tempo addietro: tutto quello che dal mare proviene, al mare ritorna. Ed io credo di aver mangiato del pesce alla cena di Natale del 2017! Eppure, non so come, riesco a sopravvivere senza restituire nulla all’oceano.
Sbarco e mi prendo un momento per ritrovare il colorito svanito. Salgo in auto e mi dirigo verso casa ripensando a quante volte i miei vagabondaggi mi hanno dato lezioni di umiltà e rispetto. Continuo ad imparare, ogni volta che viaggio, che le cose non vanno mai come desideriamo che vadano.
E la differenza tra un turista ed un Viaggiatore è tutta qui: il primo è obbligato a sbarcare per vedere l’isola che manca al suo “elenco”, il secondo sa gioire delle piccole cose ed è capace di saper vedere un’avventura anche in una navigazione oscillante!
Il turista crede di essere padrone di ciò che osserva e di ciò che vuole osservare: ha pagato e deve tornare a casa con la foto che ha in testa, nulla può essergli negato. Eppure egli è imprigionato in occhi non suoi, deve visitare lo stesso luogo che hanno visitato altri prima di lui, fare la stessa foto e le stesse esperienze per non sentirsi escluso; pena l’oblio. Consuma ciò che vede nel momento stesso in cui vede facendo così quello che è forse il più grave torto che si possa fare alla Fotografia: renderla sterile.
Non usarla come mezzo per raggiungere qualcosa di più profondo.
Il Viaggiatore è un custode che deve lottare per meritarsi di poter posare i propri occhi su quel piccolo angolo di mondo ed una volta concessogli avrà l’obbligo di considerarlo un tesoro prezioso e come tale, trattarlo con cura.
Perché chi ama davvero viaggiare gioisce non nell’arrivo, ma nella partenza.