Robert Doisneau disse:”se sapessi come si fa una buona fotografia la farei ogni volta”.

Questa frase è da sempre una delle mie preferite per svariati motivi; vuoi perché ti fa ragionare su cosa sia veramente un “Maestro”, vuoi perché ti fa capire che la Fotografia è una costante spinta creativa ed un’interminabile ricerca personale. In questi giorni di quarantena forzata a causa del Coronavirus ci stiamo ritrovando tutti confinati in casa e questo evidentemente influisce sulla quantità e qualità delle minchiate che non potendo disperdersi all’esterno rimangono a ronzare all’interno delle nostre quattro mura finendo per fare un pessimo effetto su alcune persone al punto che ogni volta che apro Instagram mi ritrovo a navigare in un oceano di merda con onde talmente alte da rendere quelle di Nazaré paragonabili alla risacca di torvajanica. Tra gente che va in diretta ogni tre per due in una sorta di competizione maccheronica col grande fratello, disperati che si stanno così sulle palle da soli da non poter riuscire a trascorrere neanche due giorni in casa con se stessi e contest su chi trova la foto più orrida della sua infanzia solo per rendersi conto che sì, a otto anni eravamo tutti carini a pacioccosi e col tempo siamo peggiorati; questi sono tempi bui per i miei neuroni sottoposti ad uno sterminio senza eguali.

Eppure il fondo del barile lo si sta toccando con le foto realizzate in casa al grido dell’hashtag #iofotografoacasa. Ora non fraintendetemi, non voglio criticare a prescindere un’idea del genere che per certi versi è anche degna di nota, quanto piuttosto la qualità delle foto non realizzate, attenzione, ma selezionate da chi le sta pubblicando. Provo a spiegarmi meglio: tutti facciamo foto di merda, ma è la nostra scelta di non pubblicarle a fare la differenza.

Chiaro? Spero di sì.

Purtroppo qualcuno ha provato a trascinarmi nel suddetto oceano di sterco dicendomi:”dai sei un fotografo, inventa qualcosa”. Sono riuscito a salvarmi, fortunatamente, ma quella frase mi si è attaccata al cervello come una gomma da masticare sulla suola delle Timberland e più cercavo di rimuoverla più lei si appiccicava ovunque e alla fine ho dovuto affrontarla: cosa significa essere creativo?

Ovviamente non posso avere una risposta assoluta, ma dato che non mi ritengo più speciale di nessun altro posso tranquillamente ipotizzare che ciò che vale per me possa valere, in forme diverse, anche per gli altri. La mia è una mente prevalentemente razionale; nel senso che tendo ad usare sempre la Ragione per affrontare le sfide che il mondo mi pone di fronte. Per intenderci non credo ai complottismi, il Coronavirus non è stato prodotto in laboratorio perché solo un idiota studierebbe un’arma biologica così potente senza aver prima realizzato un antidoto, sono sicuro che siamo andati sulla Luna, uscire sul balcone e puntare la torcia del telefono verso il cielo credendo che un fantomatico satellite possa fotografare l’Italia illuminata è una cazzata così grande che, se lo avete fatto, vi meritate il ritorno di Wanna Marchi e infine l’Europa è il miglior progetto politico attualmente disponibile seppur con margini di miglioramento grandi come i cancelli di Mordor.

Ma questa mia parte razionale non mi è di alcun aiuto quando devo scrivere o fotografare. Anzi è pesantemente invalidante.

Per creare qualcosa devo riuscire a spegnere, ma non del tutto, quella mia parte razionale, cercando di mantenere quel precario equilibrio tra stato razionale e stato ipnagogico ovvero quella transizione che ci accompagna verso il sonno in cui si susseguono caleidoscopiche esperienze sensoriali, allontanamento progressivo dall’Io, amplificazione dei sensi, interiorizzazione e dove indistinte forme astratte assumono contorni concreti. Dick e Huxley usarono l’LSD o simili per farlo, produssero capolavori, indubbiamente, ma finirono male, Dalì ed Edison usavano chiavi, piattini da tè e cuscinetti a sfera con risultati niente male. Io ancora non ho trovato il mio metodo. Spero di riuscirci un giorno.

Ma capire cosa significa essere creativo non basta, se non sai che fartene della creatività. Ecco un’altra bella domanda: a cosa serve la creatività?

L’onnipresente competizione su Instagram e sul web in generale ha portato ad un’errata, a mio avviso, concezione di essa.  Il meccanismo odierno segue tre vie:  

1) giro su Instagram, trovo il fotografo con un godzillione di follower, lo seguo, copio le sue foto e il suo stile di post produzione, provo a riprodurle, non ci riesco a pieno. Risultato: mi girano le palle;  

2) non mi piacciono le foto che faccio, vedo che macchine fotografiche usano i fotografi con godzillioni (quanto mi piace Godzilla!) di follower e compro la stessa fotocamera sperando, inutilmente, che possa sopperire alle mie mancanze. Risultato: mi girano le palle;

3) I fotografi che seguo (sempre quelli con godzillioni di follower) vendono i preset e i filtri per avere lo stesso effetto figo delle loro foto. Mi illudo che sia vero. Li compro, le foto fanno pena lo stesso. Risultato: mi girano le palle.

Qui ci sono due cose da notare, la prima è che come ti muovi ti ritroverai pieno di giramenti di palle e spesso con molti soldi in meno, la seconda è l’illusione che la soluzione ai nostri problemi è sempre all’infuori di noi. Ecco la cosa peggiore che possiamo fare a noi stessi: spostare i motivi della nostra insoddisfazione all’esterno.

Non esistono soluzioni semplici a problemi difficili, ma esiste il marketing che unito alla poca voglia di fare ve lo fa credere. Se la soluzione al nostro problema è a portata di click o il problema non esiste o l’avete spostato solo un po’ più in là per farlo tornare, più grande e ostico, successivamente. Meglio delegare agli altri la soluzione. Meglio non cercare dentro di noi che poi finisce che cade il castello di carte. 

Ma la Fotografia, la Scrittura e l’Arte in generale sono e devono essere prima di tutto un modo per confrontarsi con chi eravamo ieri, uno strumento per lasciare una traccia, un sassolino di Pollicino, utile a confrontarci con noi stessi, per raggiungere quell’ideale (irraggiungibile) che abbiamo di noi e colmare il vuoto tra chi siamo e chi vogliamo essere e solo in un secondo momento diventano un qualcosa fruibile dagli altri. Quindi, per cortesia, evitate di farvi trascinare in inutili #iofotografodalcessodicasa perché a meno che non abbiate fotografato peperoni e lattughe alla Weston quasi sicuramente la vostra foto sarà dimenticata alla velocità di un salto nell’iperspazio.

Piuttosto ricordiamoci di Dizzie Gillespie quando disse che gli ci volle una vita per capire cosa NON suonare.

E cerchiamo di non essere lenti come lui 😉