Basilicata, primi di Giugno 2019, fa così caldo che nella mia testa c’è un unico martellante pensiero; che cavolo ci faccio qui?

E il sapere che devo rimanerci per altri quattro giorni non aiuta per nulla, anzi! 

Luoghi dove le temperature possono raggiungere i 25° non sono neanche lontanamente contemplati dalla mia mente.

Eppure sono qui perché la curiosità è più forte di qualsiasi limite strutturale il mio corpo abbia e perché ho sempre creduto che sia la prima grande qualità che ogni Fotografo debba avere.

E un antichissimo rito arboreo che fonde corpo, spiritualità e simbolismo la stimola eccome la mia curiosità.  

Ma questi quattro giorni trascorrono, anche, sbagliando praticamente ogni cosa: ho sbagliato tutto! 

E come tutti sanno l’errore è il più grande insegnante che si possa avere.

Amo i ritmi lenti e mi piace osservare le cose a lungo per cercare di capire prima di fotografare, ma qui si superano tutti i limiti con ore di nulla assoluto in cui semplicemente bisogna aspettare che il rito riprenda il suo corso senza nessun programma se non un generico ordine progressivo degli eventi.

Primo errore: le pause sono parte integrante del rito. Non sono vuote anzi, sono piene di quella vita così semplice e pulita che nel nostro avvitarci su stessi abbiamo perso. Piene di umanità.

E di vino…tanto vino.

Fin dal primo giorno mi sono detto che questo tipo di cose non faceva per me; troppa gente, troppo casino, troppo caldo!

Secondo errore; non darsi il tempo di capire.

Avere fretta di fotografare è un errore in cui si può cadere. 

Vedere gli eventi che si svolgono di fronte a te e cedere a quella tensione visiva ed emotiva a cogliere qualcosa che, credi, sia unica e irripetibile è qualcosa che non mi appartiene.

Un Fotografo di fronte a qualcosa di così unico deve sedersi, riporre la fotocamera,  osservare, prendersi il tempo e poi, nel caso, fotografare.

Poi ci sono le persone, quelle che parafrasando Benedusi, sono diverse dalla gente.

Come il signor Pietro con cui ho condiviso parte del percorso e che donandomi una piccola “cima” mi ha reso, seppur simbolicamente, parte di quel gruppo di spostati che sono i cimaioli.

A volte gli incontri ridefiniscono un Viaggio e ti donano quel punto di vista differente che cambia la prospettiva a tutto.

Ed è proprio grazie a questo incontro che nonostante il caldo torrido, nonostante le interminabili pause, nonostante un allergia devastante, nonostante il caos delle millemila persone che parlano una lingua simile al groenlandese stretto ho finito per amare questo luogo e il suo rito ancestrale.

Lascio questi posti con la certezza di aver semplicemente soffiato via la polvere dal blocco di marmo che contiene al suo interno infinite possibilità di infiniti capolavori.